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Programma di storia della lingua


La Lingua di sì
Nel De vulgari eloquentia, Dante distingue le lingue in tre principali filoni, in base alla forma della particella affermativa di ciascuna:
lingua d'oïl (Francia del nord): progenitore dell'odierno francese;
lingua d'oc (Francia del sud): progenitore dell'occitano;
lingua del sì: italiano.

Nella Divina Commedia, lo stesso Dante riprenderà la denominazione al vs. 80 del XXXIII canto dell'Inferno: « del bel paese là dove 'l sì suona ».

Lingue romanze o neolatine
Le lingue neolatine o romanze sono quelle che continuano direttamente il latino, cui la forza di espansione politica e militare di Roma diede la possibilità di estendersi su un territorio immenso. La conquista romana portò, in massima parte, anche la penetrazione linguistica e le regioni sottomesse a Roma furono acquistate non solo politicamente, ma anche linguisticamente. Dopo un periodo più o meno lungo di bilinguismo, la maggior parte delle regioni divenute politicamente romane abbandonarono le loro lingue e adottarono solo il latino. Certe regioni, peraltro, opposero maggior resistenza a questa penetrazione linguistica: la Grecia, p. es., fu romanizzata dal punto di vista militare e politico, ma non divenne mai romana per lingua. Man mano che il latino guadagnava nuovi paesi e si stendeva su territori sempre più vasti e lontani dal centro, le differenze regionali si moltiplicavano. Si formò, pian piano, una κοινή (lingua comune) latina che, meno esattamente, si è chiamata anche "latino volgare": da questa si sono venute evolvendo le lingue neolatine.
Per farci un'idea di questa κοινή latina abbiamo parecchi mezzi: 1. gli autori latini che hanno usato una lingua più vicina a quella del popolo; 2. i grammatici, specialmente quando parlano delle forme da evitare; 3. i lessicografi; 4. le iscrizioni, dove, per causa dell'ignoranza degli scalpellini, troviamo parecchie testimonianze di fenomeni linguistici (p. es., la caduta di -m finale); 5. i manoscritti, con le incongruenze grafiche dovute ai copisti, sovente specchio di condizioni linguistiche diverse; 6. varie fonti diverse (note tironiane, diplomi, elementi latini passati in altre lingue, ecc.); 7. infine il vocabolario delle lingue romanze che ci permette di ricostruire, in molti casi, la fase precisa del latino comune, anche se essa non è attestata.
Un gran numero di parole erano usate tanto nel latino classico quanto in quello parlato (comune, volgare ecc.), con il medesimo senso; ma accanto a questo gruppo di elementi immutati vi sono molti spostamenti (per es., per "fuoco" il latino classico usava ignis, mentre focus significava "focolare"; il latino comune comincia a usare focus nel senso di ignis, e mentre ignis scompare dal vocabolario romanzo, focus rimane dovunque col nuovo senso acquistato). Mentre delle volte è impossibile determinare i motivi della scomparsa di alcuni lemmi, in altri casi si possono fare delle illazioni. Tante volte la scomparsa di una voce è dovuta al fatto che la caduta o l'evoluzione di alcuni suoni determinava omofonia tra parole di significato diverso, con conseguente scomparsa di uno o più termini omofoni e adozione di altri di significato simile. Il problema della sostituzione delle parole è ora molto avanzato grazie ai metodi della geografia linguistica.
Nella fonetica del latino comune e popolare si sono prodotti dei mutamenti di considerevole importanza. La quantità aveva per i Romani un valore capitale; la loro metrica era basata infatti sulla quantità; gli accenti avevano un valore secondario. In origine la differenza fra una vocale lunga e una vocale breve era probabilmente solo una questione di durata, ma più tardi le vocali lunghe cominciarono ad essere pronunziate come chiuse e le brevi come aperte; molti parlanti non sapevano più distinguere la quantità, e così a poco a poco il sistema delle vocali latine si riduce. Lo spostamento dell'accento provoca poi altri mutamenti. 
Sovente uno, o una serie di mutamenti fonetici, provocano mutamenti morfologici e sintattici; così la caduta dello -m finale in tutta la Románia (territorio di dominio romano), e di -s in gran parte del dominio romano, provocava uno sfasciamento della declinazione.
Il latino aveva una collocazione delle parole relativamente assai libera. Per es., il posto del soggetto non era necessariamente al principio della frase; si poteva dire tanto Petrus Paulum amat quanto Paulum Petrusamat; era impossibile scambiare il soggetto con l'oggetto per causa delle desinenze di declinazione. Ma quando queste scomparvero, la collocazione dovette divenire più rigida, i periodi più brevi, ecc. Nella morfologia scomparve la declinazione, di cui rimangono tracce solo in romeno e in antico francese e antico provenzale (in queste due ultime lingue la declinazione si era ridotta a bicasuale, nel romeno a tricasuale). Nel verbo i mutamenti sono anch'essi importanti; il passivo organico scompare ed è sostituito da forme perifrastiche (amor cede il posto ad amatus sum che perde il valore di perfetto e prende quello di presente), il futuro (cantabo) si perde e viene anch'esso formato perifrasticamente (cantare habeo, volo cantare, ecc.), ecc.
In conclusione, una gran parte dei mutamenti avvenuti nelle lingue romanze sono già attestati, per lo meno in germe, nel latino volgare.
Abbiamo detto che le lingue neolatine sono quelle che continuano il latino (meno bene: derivano dal latino). Quali sono ora queste lingue?
Le osservazioni dedotte in questi ultimi anni attraverso le ricerche di geografia linguistica, dimostrano che piuttosto che parlare di linee di demarcazione di un determinato fenomeno fonetico o morfologico si può parlare di "fasce" o "strisce" Per es., un esame delle carte dell'Atlante linguistico della Francia, condotto allo scopo di delimitare la zona in cui t diviene d e poi cade (caratteristica francese) o rimane d (caratteristica provenzale), ci mostra che nelle tre parole fr. roue: prov. roda; fr. couennem: prov. codena; fr. crier: prov. cridar, i punti non si ricoprono esattamente, quantunque le linee si dirigano nel medesimo senso e le variazioni siano limitate a un'esigua regione, ora più stretta ora più larga, che può essere appunto chiamata la "fascia di frontiera".
Senza voler pretendere di dare una nuova classificazione delle lingue romanze, che, date le premesse generali sopra esposte, avrebbe poi poca importanza metodica, possiamo dire che le lingue neolatine sono: 1. il romeno; 2. l'italiano (al quale si possono unire come unità minori coordinate, se pur non subordinate, il dalmatico, il ladino e il sardo); 3. il franco-provenzale; 4. il provenzale (ivi compreso il catalano); 5. il francese; 6. lo spagnolo; 7. il portoghese (ivi compreso il galiziano).
La materia con cui sono formate le lingue neolatine è principalmente latina perché, come si è detto, queste lingue non sono altro che la continuazione diretta del latino, in varie regioni dell'impero romano (e più tardi anche trasportate in altri luoghi, dall'espansione di nazioni parlanti lingue neolatine: per es., lo spagnolo e il portoghese in America, ecc.).
Il latino era una lingua giunta a un altissimo grado di perfezione per il merito dei suoi scrittori e perché rappresentava l'idioma di un popolo arrivato a un alto grado di civiltà; il suo vocabolario era così ricco come quello di poche altre lingue indoeuropee (eccettuati il sanscrito e il greco). Di questo grande tesoro di voci non tutte erano, come si è visto, popolari; molte sono scomparse senza lasciare traccia nelle lingue romanze. Ma d'altra parte il lessico del latino comune si arricchiva di molti altri elementi, sia formati con i suoi propri mezzi, sia presi da lingue straniere. Ogni lingua ha in se stessa i mezzi che le permettono di rinnovarsi e di evolversi; il latino e le lingue romanze hanno, in questo senso, una grande elasticità che permette loro un'infinità di formazioni nuove che arricchiscono il vocabolario. Le formazioni per mezzo di suffissi erano il principale mezzo di arricchimento del vocabolario; nella lingua familiare era frequente (come lo è anche ora, p. es., in italiano) l'uso di forme diminutive. Ma nel corso dei secoli il latino si è andato modificando e, per i rapporti avuti con molti altri popoli, ha assunto anche elementi nuovi. Del resto il latino medesimo, come ogni lingua, aveva già assimilato, nel corso del suo sviluppo storico, un certo numero di elementi stranieri (un nucleo importante di voci entrarono nel lessico romanzo attraverso i numerosi rapporti coi popoli germanici).
La lotta del mondo romano con quello germanico è cominciata ben presto. La suprema aspirazione dei Germani era di costituire un impero germanico che avesse sostituito quello romano. I rapporti linguistici fra i Romani e i Germani erano cominciati però già molto tempo prima, sulle sponde del Reno, al tempo di Cesare. Ma i Germani, come popolo di cultura inferiore alla romana, avevano ricevuto ben più elementi latini di quanti elementi germanici avessero potuto dare. È solo più tardi che con la fusione dei Germani nell'impero romano, con la frequenza di Germani nell'esercito mercenario ormai arruolato dall'impero, ecc., le lingue germaniche cominciano a esercitare un influsso considerevole. Lo spagnolo e il portoghese sono le lingue romanze occidentali che hanno meno elementi germanici, perché in Spagna non vi furono altro che i Visigoti e gli Svevi; la presenza di un elemento germanico nello spagnolo e nel portoghese dimostra dunque la relativa antichità di estensione di una parola germanica. Per il francese e per l'italiano il problema degli elementi germanici è complicato dalle differenti ondate di popoli germanici che vennero in Francia e in Italia e dai numerosi rapporti commerciali.
Gli Arabi che entrarono in Spagna già nel sec. VIII e vi rimasero fino alla caduta di Granata, che conquistarono la Sicilia al principio del sec. IX e vi rimasero fino alla venuta dei Normanni, ebbero un notevole influsso sul lessico romanzo, come sulla cultura iberica e siciliana.
L'influsso arabo si è esercitato specialmente sul lessico; una gran parte degli elementi arabi sono limitati alla Penisola Iberica e anche quando li troviamo pure in francese e in italiano sono quivi passati dalle lingue della Penisola Iberica. Risalgono all'arabo molte delle denominazioni riferentisi alla matematica e all'astronomia.

Concilio di Tours (813)
L’atto di nascita ‘ufficiale’ delle lingue romanze viene comunemente fissato all’anno 813 quando, al concilio di Tours, promosso da Carlo Magno, si dichiara esplicitamente nella XVII deliberazione che i vescovi debbono «tradurre (transferre) le prediche in modo comprensibile, nella lingua romana rustica o nella tedesca (in rusticam romanam linguam aut thiotiscam), affinché tutti possano comprendere più facilmente quel che viene detto». Il punto di partenza della decisione è la necessità che tutti debbano comprendere le prediche, ovvero le direttive comportamentali enunciate dal clero.
All’interno di ogni comunità linguistica possono presentarsi problemi di comunicazione, poiché nella nozione stessa di ‘lingua’ non è mai compresa una realtà assolutamente unitaria al suo interno e stabile attraverso il tempo. Le differenze all’interno del latino, sin dalle sue fasi più antiche, erano però ormai arrivate a un punto d’incomunicabilità, equiparabile a quello che i missionari cristiani avevano dovuto affrontare nell’evangelizzazione di popoli non latini o talmente rustici da non comprendere neppure il latino cosiddetto ‘volgare’. Non si trattava più di differenze sociolinguistiche o stilistiche all’interno di qualcosa concepito come un sistema unitario ma di sistemi diversi, almeno nella coscienza dei parlanti: l’uso del vocabolo transferre e insieme l’equiparazione fra rustica romana lingua e (rustica) thiotisca (lingua) è al riguardo evidente, per quante sottili distinzioni si possano fare.
Il ceto dirigente cristiano aveva compreso benissimo la situazione, corrispondentemente alle ragioni profonde della propria predicazione rivolta non ai senatores ma ai più umili, ai piscatores, e infatti preferiva essere ripreso dai grammatici piuttosto che dal popolo: «melius est reprehendant nos grammatici quam non intelligant populi» aveva detto incisivamente s. Agostino.
Quando a Tours si mette sullo stesso piano la rustica romana lingua e la tedesca non si riconosce, però, soltanto l’esigenza di risolvere un problema di comunicazione interno al fatto religioso, ma anche la presenza paritaria di un elemento romano e di uno germanico (cioè di due lingue diverse, l’una derivata dal latino volgare e dal suo incontro con i germani, l’altra da una lingua germanica), in una comunità che si riunisce per fissare regole all’interno di un ‘nuovo’ territorio e di una nuova entità politica centrale che si è fatta, non a caso, promotrice e organizzatrice del Concilio: per l’Impero carolino la comunicazione con il popolo dei fedeli, garantita dal clero, era essenziale anche ai fini del consenso e del successo del nuovo ordinamento sociale e politico. Esiste di nuovo in Occidente un potere centrale che continua a usare il latino ma questo potere ha bisogno di rimettere ordine nella comunicazione linguistica con tutti i sudditi, riconoscendo il diverso e con ciò stesso riconoscendo che la sua identità linguistica si definisce anche a partire dal basso: in prospettiva sarà proprio questo riconoscimento a connotare in modo assoluto l’eccezionalità e la specificità della cultura europea, che dall’Europa carolina procederà.
Il latino rimane la lingua ufficiale dei grandi poteri sovranazionali, Chiesa e Impero, ma rimane anche, nel tempo, uno dei segni linguistici, culturali, e socio-politici, più forti e identitari dell’Europa.
Il bilinguismo latino/volgare è uno dei segni distintivi della cultura e dell’identità europea sin dalle prime documentazioni delle lingue romanze (e germaniche), che non per nulla iniziano proprio nello stesso IX secolo del Concilio di Tours: il primo documento ufficiale in una lingua romanza, il Giuramento di Strasburgo (842), in un volgare francese, è tramandato nelle Historiae di Nitardo, accanto, di nuovo, allo stesso testo in tedesco (a garanzia della comprensione, e relativa garanzia, dei due eserciti, dinanzi a cui Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico confermavano la loro alleanza); le formule testimoniali campane (ca. 960) sono riportate in strumenti notarili latini ecc.
La cultura dei rappresentanti del primo canone letterario europeo, le ‘tre corone’ - Dante, Petrarca e Boccaccio - è fondamentalmente bilingue: e bilingue sarà la loro enorme influenza sull’Europa, così come bilingue (e trilingue, col recupero del greco) sarà la cultura umanistica e rinascimentale europea. Latino soprattutto (oltre che greco) sarà il serbatoio lessicale cui attingeranno le lingue moderne, fino ai giorni nostri, per indicare scoperte o forgiare neologismi.
Ma la circolarità linguistica non rimane solo verticale: dalle lingue romanze al latino, o viceversa; è anche orizzontale, fra le lingue romanze. Dante ha una cultura almeno quadrilingue, e prima di lui Pietro della Vigna leggeva almeno quattro lingue, così come Guido delle Colonne (e con lui, ancor più poliglotta, Federico II, che parlava anche tedesco e leggeva e si dilettava di francese, provenzale, arabo e quasi certamente almeno di greco).

Indovinello veronese (fine '800)
L'Indovinello veronese è un testo rinvenuto nel 1924 da L. Schiaparelli in un codice della Biblioteca capitolare di Verona. Vergato da un ignoto copista tra l'VIII secolo e l'inizio del IX in forma d'appunto, presso il margine superiore di un foglio in un codice pergamenaceo più antico, rappresenterebbe un possibile atto di nascita del volgare in Italia, ma non tutti gli studiosi sono concordi e alcuni ritengono che si tratti ancora di latino.
Che la mano che lo ha vergato fosse veronese, probabilmente di un amanuense della stessa Capitolare, è stato attestato da un esame filologico che dimostra la presenza di tratti tipici del dialetto veronese (come versorio = aratro e i verbi all'imperfetto indicativo in -eba invece dell'-aba o -ava di altri dialetti).
La forma stilistica sembra essere quella di una coppia di esametri caudati, probabilmente scritti come probatio pennae (esercizio preparatorio atto a verificare gli strumenti scrittori o ad adeguare la mano ad un determinato strumento o stile scrittorio).
Il testo dell'Indovinello è seguito da una breve formula, vergata da un'altra mano, che recita: "Gratias tibi agimus omnipotens sempiterne Deus", cioè "Ti ringraziamo, Dio onnipotente ed eterno".
Secondo la ricostruzione più vicina all’originale, i brevi versi significherebbero per metafora l’atto dello scrivere: Boves se pareba/Alba pratalia araba/Et albo versorio teneba/Et negro semen seminaba.


Placito Capuano Cassinese
L’atto di nascita della lingua italiana viene tradizionalmente collocato nel 960, l’anno del Placito Capuano, antico verbale notarile a cui si attribuisce in maniera più o meno convenzionale il titolo di “primo documento” del nostro idioma.
Il documento fa parte di un gruppo di verbali processuali, detti Placiti Capuani o Cassinesi,  registrati tra il 960 e il 963 riguardanti l'appartenenza di certe terre ai monasteri benedettini di Capua, Sessa Aurunca e Teano; si tratta di un gruppo compatto di quattro pergamene, precisamente tre placiti e un "memoratorio" (redatto a Teano) che rappresentano i primi documenti di volgare italiano scritti in un linguaggio che vuol essere ufficiale e dotto. Riguardava una lite sui confini di proprietà tra il monastero di Montecassino e un piccolo feudatario locale, Rodelgrimo d'Aquino. Con questo documento tre testimoni, dinanzi al giudice Arechisi, deposero a favore dei Benedettini, indicando con un dito i confini del luogo che era stato illecitamente occupato da un contadino dopo la distruzione dell'abbazia nell'885 da parte dei saraceni.
All'infuori del "memoratorio", il tipo è costante nelle sue formule: dapprima il giudice comunica alle parti il testo della formula, in seguito tre testimoni devono pronunciarla separatamente. In questo modo la formula viene ripetuta quattro volte.
Ciò che rende particolare questo documento è l’intenzionalità con cui viene usato il volgare. La testimonianza a favore dei benedettini infatti non è registrata in latino volgarizzato o contenente errori rispetto alla norma, ma in una lingua nuova ed autonoma, che per la prima volta possiede la necessaria dignità per apparire in un documento.
Ecco come si presenta la parte scritta in volgare all’interno del testo in latino:
« Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti. »
(Capua, marzo 960)
« So che quelle terre, entro quei confini che qui si descrivono, trent’anni le ha tenute in possesso l’amministrazione patrimoniale di San Benedetto »
Documenti simili divennero sempre più frequenti, documentando il diffondersi e rafforzarsi progressivo del volgare e l'intenzione di usarlo con scopi o con caratteri differenti da quelli finora usati.
Tuttavia il latino, grazie al carattere conservatore della Chiesa, restò ancora, per tutto il Duecento e oltre, lingua della cultura e occorsero parecchi secoli perché il volgare italiano, divenuto ormai lingua letteraria e culturale, raggiungesse tutti i settori del sapere.

San Clemente (patrizio Sisinnio)
L’Iscrizione di San Clemente è collocabile cronologicamente intorno al 1080 e rappresenta una delle più antiche testimonianze del volgare italiano. È contenuta in un affresco situato nella cripta della Basilica di San Clemente a Roma. Si tratta di una specie di “fumetto” che illustra un miracolo del santo.
Nell’Iscrizione di San Clemente si narra che il patrizio pagano Sisinnio, convinto che Clemente abbia messo in atto contro di lui le proprie arti magiche per insidiargli la moglie, convertita al Cristinanesimo, ordina ai servi (Gosmario, Albertello e Carboncello) di arrestarlo. Ma mentre questi lo trascinano, il corpo del santo si trasforma miracolosamente in una pesantissima colonna.
La scena è rappresentata in modo assai vivace.
Iscrizione di San Clemente, particolare di un affresco della fine del secolo XI nella Basilica sotterranea di San Clemente a Roma
Al centro del dipinto c’è un colonnato con un’iscrizione in latino e ai lati opposti sono raffigurati sia Sisinnio sia i servi che tentano inutilmente di smuovere la colonna.
Accanto all’uno e agli altri ci sono scritture in volgare in cui è trascritto ciò che Sisinnio e i servi dicono. Come si può notare, il volgare romanesco è considerato un linguaggio basso rispetto al latino, lingua più elevata non a caso messa in bocca al santo.

Testo in volgare:
Sisinium: «Fili dele pute, traite» (Figli di puttane, tirate!)
Gosmarius: «Albertel, trai» (Albertello, tira)
Albertellus: «Falite dereto colo palo, Carvoncelle» (Vagli dietro col palo, Carboncello).

Testo in latino:
«Duritia cordis tui in saxa conversa est, et cum saxa deos aestimatis saxa traere meruistis» (La durezza del tuo cuore si è tasformata in sassi, e dal momento che tu ritieni che gli dèi siano sassi, hai meritato di trascinare sassi».

Contestualizzazione di San Francesco e Federico II
Bilinguismo e diglossia
Analfabetismo di San Francesco
Il Cantico delle Creature

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