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Storia della lingua italiana

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L'italiano affonda le proprie radici nel latino, anche se è riduttivo considerare questa lingua l'unico apporto alla nostra. 

Intorno al 1000 a.C., quando la popolazione dei Latini si stanziò nel Lazio, nella penisola italica si parlavano numerose lingue indoeuropee, chiamate così perché difuse tra le genti che abitavano i territori che andavano dall'Europa all'India. Il latino primordiale nasce in questo contesto, e quindi sicuramente risente dell'influsso di questi idiomi, in particolar modo di quello etrusco. L'alfabeto deriva da quello greco, seppur con influenze etrusche, così come la maggior parte dei termini.

Tra il III e il I secolo a.C., Roma divenne potenza imperiale dominatrice di quasi tutta l'Europa, ma inevitabilmente, oltre a colonizzare, in qualche modo fu a sua volta colonizzata, andando a subire una forte penetrazione di termini, ad esempio, gallici e celtici.

Nel 212 d.C., con l'editto di Caracalla, fu concessa la cittadinanza a tutti gli abitanti dell'Impero, e il latino divenne la lingua ufficiale.

A diferenza del latino letterario, che con il tempo divenne una lingua morta, il latino parlato popolare si è evoluto per secoli, determinando una sorta di bilinguismo e dando vita, nelle varie aree, alle lingue romanze, tra cui proprio l'italiano.

Tra le prime testimonianze di questo processo avvenne durante il Concilio di Tours dell'813 voluto da Carlo Magno: la Chiesa sancì che, mentre il latino rimaneva la lingua ecclesiastica ufficiale, per le predicazioni bisognava utilizzare il volgare.

Non esistono molte tracce del volgare parlato in Italia durante il Medioevo antico. Uno dei documenti più noti si può collocare tra la fine dell'VIII e l'inizio del IX secolo: si tratta dell'indovinello veronese, conservato alla Biblioteca Capitolare di Verona. La prima frase in volgare di cui si abbia traccia, invece, è considerata quella dei Placiti Cassinesi, contenuta nella Carta capuana, risalente al 960.

Durante questo processo, la lingua della letteratura continuava a essere il latino, almeno fino al 1200, quando cominciano a comparire le prime testimonianze di componimenti nei volgari propri delle singole aree geografiche. Questi primi esperimenti dialettali non hanno ancora intenti letterari, ma si inseriscono piuttosto, con ogni probabilità, in una tradizione di componimenti popolari recitati dai giullari, joculares, che giravano per corti, castelli e città durante il Medioevo.

Nel XII secolo alcuni autori preferivano usare il provenzale come lingua di composizione, affermatasi nella Francia meridionale e che già aveva prodotto da tempo una propria letteratura di alto livello. Nel De vulgari eloquentia, Dante ha distinto tre ceppi fondamentali nel volgare dei suoi tempi, raggruppando le lingue romanze sulla base della parola utilizzata per dire "sì": la lingua d'oc, cioè il provenzale della letteratura medievale francese; quella d'oïl, parlata in Francia settentrionale; la lingua del sì, parlata in Italia. 

L'influsso delle parlate francesi fu enorme in Italia.

Dal punto di vista letterario, in questa lingua erano stati scritti i cicli epici carolingi e il ciclo bretone, oltre che componimenti poetici didattici e satirici.

Brunetto Latini diceva di aver scritto il Tresor in lingua d'oïl e Il Milione, dettato dal veneziano Marco Polo al suo compagno di cella Rustichello, fu stilato in francese (Livres des meraveilles du monde).

Una poesia lirica in lingua d'oc era nata invece in Provenza, nel sud della Francia, con autori come Pietro Vidal di Tolosa o Rambaldo di Valqueiras, ed era passata alla corte di Federico II trasposta in un siciliano illustre. I poeti della lingua d'oc venivano detti trovatori (da trobar, "comporre").

La letteratura del Duecento nasce come conseguenza dell'affermazione dei Comuni, le cui spinte autonomistiche portarono all'affermazione dei volgari municipali. I primi autori che componevano in lingua del sì usavano un linguaggio depurato da tutti gli elementi regionali, che potremmo definire volgare illustre. Questo perché il nuovo pubblico colto di lettori si stava allargando ai mercanti e alle donne, segno che si stava estendendo la cultura anche ad altre classi oltre alle tradizioni. Inoltre questo era sintomo di come gli autori mirassero a parlare agli Italiani, intesi in senso nazionalistico. A differenza di quanto accadeva in Francia o in Germania, dove si era già avuta l'unità nazionale, in Italia persisteva la frammentazione territoriale, che corrispondeva a un frazionamento linguistico, e il volgare illustre mirava a superarlo per rendersi comprensibile a tutti gli Italiani.

Le prime opere scritte in italiano volgare con consapevolezza letteraria sono in poesia, e una delle più antiche è il Cantico delle creature di Francesco d'Assisi, scritto intorno al 1225 in dialetto umbro. In dialetto umbro sono scritte anche le Laude di Jacopone da Todi (1236-1306).

La poesia di più altro livello stilistico è quella, già citata, della scuola siciliana alla corte di Federico II di Svevia. Il poeta più antoco e famoso, considerato l'inventore del sonetto, è Giacomo da Lentini. Ma esisteva in Sicilia anche una poesia meno raffinata, come quella di Cielo d'Alcamo (Rosa fresca aulentissima).

Con la morte di Federico II (1250) la poesia siciliana si esaurì e il centro poetico del volgare divenne in un primo momento Bologna e, successivamente, la Toscana.

Dalla scuola bolognese di Guido Guinizzelli nascerà lo stilnovismo, continuato dall'opera di Cavalcanti, Frescobaldi, Cino da Pistoia e Dante. Il movimento letterario prende il nome da un passo del XXIV canto del Purgatorio, in cui il Sommo Poeta incontra Bonagiunta Orbicciani, che dichiara di comprendere la differenza tra la poesia dei siciliani e dei guittoniani e il dolce stil novo. Inaugurato con Al cor gentile rempaira sempre Amore di Guinizzelli, lo stilnovismo dura dal 1280 al 1310 circa e si chiude con Dante, che segna il mutamento di direzione della lingua italiana, nel frattempo modellatasi sempre più sul dialetto toscano.

Subito dopo la scuola bolognese, intorno alla metà del XIII secolo, si impone quella toscana con Brunetto Latini (1220-1294), che scrive il Tresor in dialetto toscano, seppur lo dichiari in lingua d'oïl. I temi e lo stile sono ripresi dalla scuola siciliana e provenzale. Il capostipite è Giuttone d'Arezzo, ma possiamo citare anche Folgore da San Gimignano e Cecco Angiolieri (1260-1313).

Oltre alla lirica, alla fine del Duecento si impone anche la prosa in volgare. Dalla lingua parlata in Toscana, mescolata alla retorica medievale, nasce il Novellino, una raccolta di novelle che trattano argomenti per lo più storici, dai fatti che riguardano Federico II per risalire fino all'imperatore Traiano. In prosa è pure Il Milione di Marco Polo (1254-1324), resoconto dei suoi viaggi.

Il XIV secolo si apre in piena continuità con il precedente, ma nel corso del Trecento si registra una progressiva e crescente evoluzione della lingua che porterà a una significativa discontinuità negli ultimi decenni del secolo. Mentre la sede pontificia veniva spostata ad Avignone (1305) e il Papato perdeva la sua influenza sul Paese, i comuni cominciarono a entrare in crisi e l'Italia si cominciava ad avviare verso l'epoca delle Signorie. Per la poesia si era ormai imposto il fiorentino illustre.

Dante (1265-1321) può essere considerato il primo teorico del volgare: nel 1300 scrive il Convivio, opera enciclopedica incompiuta in cui esalta la maggiore possibilità di divulgazione del volgare ma considera il latino superiore per commentare le canzioni in volgare; nel 1308 circa scrive il De vulgari eloquentia, in latino in quanto opera di trattazione dottinale, per convincere i dotti della qualità della lingua da loro disprezzata. in quest'opera Dance celebra il volgare come superiore al latino perché variabile nel tempo e "naturale". Egli non individua nessun dialetto come potenziale lingua nazionale (non parla di italiano ma di vulgaris Ytalie variationes), ma ipotizza di creare un aligua a partire dagli aspetti comuni a ciascuno di essi.

Forse a partire dal 1304 o dal 1307 Dante scrisse la Commedia, oggi considerata l'opera più importante ma che, tra i contemporanei e nei secoli successivi, ebbe molti detrattori a causa del linguaggio piuttosto vario, che spazia dal fiorentino illustre al plebeo, vicino al parlato, addirittura colorito da parolacce.

Il modello linguistico che verrà esaltato come perfetto, invece, fu quello di Petrarca (1304-1374) e il suo Canzoniere fu considerato il punto più alto mai raggiunto dal volgare. Egli cercò di elevare il volgare avvicinandolo alla perfezione del latino, così come Boccaccio (1313-1375). A parte il lessico e la lingua interamente toscana, però, l'opera di Boccaccio trattava temi e amori molti distanti da quelli stilnovistici, finendo per essere criticato e considerato scandaloso.

Gli ultimi decenni del Trecento non videro scrittori significativi o importanti continuatori delle tre corone.

In un certo senso, l'italiano moderno può essere considerato come un dialetto che si è imposto sugli altri grazie soprattutto ai tre poeti toscani, e in particolare il lessico di Dante è oggi considerato la base dell'italiano.

Nel XV secolo l'Italia del nord era in mano alle signorie, al sud c'era la dominazione francese degli Angioini che, successivamente lasciò il posto a quella spagnola degli Aragonesi, dalla Sicilia a Napoli.

Il latino tornò ad essere la lingua della cultura alta, e proprio questo nuovo interesse, insieme alla riscoperta dei classici e alla nascita di uno spirito storico, è caratteristico del primo Umanesimo. Dante e il volgare vennero tacciati di "goticità", mentre Petrarca e Boccaccio furono salvati solo per le composizioni in latino. Dopo molti secoli in cui era andato perduto, anche il greco fece il suo ritorno grazie ai contatti con il mondo arabo, che invece lo aveva custodito e studiato.

Tra le posizioni, minoritarie, che difendevano il volgare, notevole quella di Leon Battista Alberti, artista a tutto tondo, che spaziava dalla matematica all'architettura. Egli scrisse sia in latino che in volgare, ma molto diverso dal Trecento, essendo un fiorentino vivo che Alberti cercò di conciliare con il latino. Egli compose la prima Grammatica del volgare, che però rimase inedita, con lo scopo di descrivere i fenomeni della lingua volgare piuttosto che prescriverli.

Si profilava quella 'questione della lingua' che, già anticipata da Dante, sarebbe esplosa nel Cinquecento.

Mentre gli intellettuali umanisti guardavano al latino polemizzando sul volgare, questo si affermava sempre più tra il popolo: continuavano a circolare opere popolari, come quelle dei cantari, si affermava la documentazione in volgare tra i mercanti, e sempre più spesso i documenti ufficiali venivano scritti in volgare. Cominciava a nascere una lingua intesa in ogni luogo, grazie all'influsso del latino e del toscano letterario e anche la predicazione religiosa si faceva sempre più in volgare, come quella di San Bernardino da Siena o di Girolamo Savonarola. 

Ad affiancarsi ad una letteratura alta e ad una popolare, c'era anche una tradizione di scrittori che non possedevano un'istruzione letteraria ma scrivevano di meccanica, di architettura, di ingegneria, di cartografia: tra questi, il più illustre fu senza dubbio Leonardo da Vinci (1452-1519).

Nella seconda metà del Quattrocento tornò in auge il volgare per le opere letterarie, come aveva auspicato Leon Battista Alberti. Tra i protagonisti, in Toscana c'è Lorenzo de' Medici (1449-1492), illustre mecenate alla cui corte si riunivano personaggi quali Pico della Mirandola o Marsilio Ficino. Anche Luigi Pulci, compositore dell'opera in volgare Morgante, fu alla sua corte.

I componimenti in volgare di questo momento non si rifanno solo alla tradizione volgare toscana, come l'opera di Matteo Maria Boiardo, l'Orlando Innamorato, che si ricollega all'epica medievale, in un emiliano illustre che fa uso anche di francesismi.

Enorme fortuna sia in Italia che in Europa ebbe l'Arcadia di Jacopo Sannazzaro, composta alla fine del secolo in prosa volgare in napoletano illustre.

In questo fiorire di componimenti, l'invenzione della stampa a caratteri mobili avrebbe cambiato per sempre la storia. Avvenne intorno al 1456 a Magonza, in Germania, ad opera di Gutemberg, favorendo la diffusione della stampa con velocità sorprendente per l'epoca. L'Italia fu uno dei primi Paesi a veder nascere le stamperie, le quali diedero ampio spazio alle pubblicazioni religiose (prima fra tutte la Bibbia, seguita dai Vangeli) e, in pieno spirito umanistico, ai classici latini e greci. L'Italia si distinse nel settore, grazie anche all'opera di Aldo Manuzio, che operava a Venezia, il centro più attivo tra il XV e il XVI secolo. Al tipografo si deve il primo brevetto della storia, il corsivo editoriale detto italico o aldino. Aldo Manuzio fu il primo vero editore che riuscì a cogliere le esigenze del mercato, pubblicando testi in volgare.

Il 1492 segnò il passaggio all'età moderna, non i lo per la scoperta dell'America, ma anche per la morte di Lorenzo il Magnifico. L'Italia, che si reggeva su un delicato equilibrio tra gli stati di Venezia, Ferrara, Milano, Firenze, Roma e Napoli, fu preda di un susseguirsi di invasioni spagnole e tedesche, che si conclusero solo nel 1559 con il trattato di pace di Cateau-Cambrésis.

Nel frattempo la stampa si era pienamente affermata e Lutero ne fece un uso politico e religioso, facendo circolare le sue Tesi eretiche e antipapiste (Riforma luterana). La reazione della Chiesa non tardò a presentari e si concretizzò nella Controriforma, che ebbe il suo culmine nel Concilio di Trento (1545-1563), che impose il controllo sulla cultura e sulla libertà di coscienza. In particolare, furono proibite le edizioni in volgare della Bibbia, furono condannati al rogo i libri di autori scomunicati, e a volte gli stessi autori (da Savonarola a Giordano Bruno), e si stabilì che nessun libro poteva essere pubblicato senza l'autorizzazione dell'Inquisizone.

Nel 1559 uscì il primo Indice dei libri proibiti, che sarebbe stato aggiornato periodicamente fino al 1960.

Mentre l'Italia, quindi, si affermava come centro culturale e artistico tra i più vivi e ammirati in Europa, al suo interno si contrapponevano due culture: quella umanistico-rinascimentale, che raggiunse il suo apice nella prima metà del XVI secolo, e quella della Controriforma.

Nello 1559, con il trattato di Cateau-Cambrésis, il Piemonte e la Savoia passarono dalla Francia al duca di Savoia, Emanuele Filiberto, mentre alla Spagna fu garantita la supremazia su tutto il Paese, che si mantenne per tutto il secolo successivo. Emanuele Filiberto impose la sostituzione, in tutti gli atti ufficiali, del latino con il volgare proprio della provincia (il Francese in Val d'Aosta e Savoia, l'italiano in Piemonte).

Dal Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua (1524 circa) di Machiavelli è possibile intuire come la comprensione reciproca nei rispettivi volgari non fosse un problema. Il problema che si poneva, invece, era quello di stabilire quale volgare adottare come lingua d'Italia, se la lingua di Dante, Petrarca e Boccaccio o altri dialetti, e se difendere la lingua viva a scapito di quella storica. Alla fine, attribuendo la supremazia alla lingua fiorentina, si riferiva a quella in uso tra le persone colte e non quella degli esemplari del Trecento. 

Ma il Discorso di Machiavelli rimase inedito e la questione della lingua fu posta in maniera dirompente solo da Pietro Bembo, che sosteneva l'indiscussa superiorità del latino per la lingua scritta e che bisognava rintracciare le caratteristiche per unificare la lingua italiana in Petrarca, per la poesia, e in Boccaccio, per la prosa. 

Tra questa posizione e quella di quanti sostenevano ancora la superiorità del latino, ormai decisamente anacronistica, uscì vincitore il modello purista di Bembo. In base ai suoi criteri, egli propose anche una grammatica, ma il primo a porre le basi di una grammatica incentrata sulla lingua delle tre corone trecentesche fu Giovanni Francesco Fortunio.    

In questo periodo fiorironoo molte altre opere di grammatica, con diversi criteri quali anche l'attenzione all'ortografia (Trissino), alla sintassi e ai sinonimi. 

Nel Cinquecento gli autori della letteratura scrissero ognuno seguendo i propri criteri, e Bembo di il principale punto di riferimento, come lo fu per Ariosto, quando rivide la lingua dell'Orlando furioso per l'edizione del 1521.

Al di fuori della letteratura alta segnaliamo una letteratura dialettale e popolare, come quella in padovano di Ruzzante.

Intorno alla metà del Cinquecento, i centri della cultura, adesso rinascimentale, si spostarono dalle università alle accademie. Nacque così, nel 1582, anche l'Accademia della Crusca, da un gruppo che iniziò ad aggregarsi nel 1570. Partendo dai principi del Bembo e del purismo, avevano lo scopo di ripulire il 'fior di farina' (cioè il fiorentino del Trecento) dalla 'crusca'.

Il Seicento è il secolo del Barocco e della Controriforma. Sotto la dominazione spagnola l'Italia acquisisce diversi termini nuovi, ma l'industria della stampa subisce una forte recessione, con un conseguente dilagare dell'analfabetismo.

Nel 1612, a Venezia, fu dato alle stampe il Vocabolario degli Accademici della Crusca che, in difesa della lingua del Trecento, stilava un elenco dei termini consentiti perché citati dagli autori classici approvati. In edizioni successive, forse anche in seguito alle numerose critiche di quanti ne vedevano una censura della lingua viva, fu rivalutato Dante e vennero aggiunti tra gli autori consentiti anche i più importanti non appartenenti al Trecento, quali Della Casa, Machiavelli, Bembo, Ariosto e, successivamente,Tasso.

In ambito scientifico, il primo a introdurre l'italiano rompendo la tradizione dello scritto scientifico in latino, fu Galileo Galilei il quale, rendendo obsoleto lo stile della scienza in latino, fu preso come modello da altri scienziati, come Francesco Redi.

La lingua parlata del XVII affiancava una serie di dialetti a un italiano delocalizzato, che si potrebbe definire "illustre", impiegato nella comunicazione interregionale. Nonostante l'affermazione dell'italiano sul modello toscano, molti autori teorizzano ancora l'auotonomia e la dignità dei dialetti locali, come il napoletano Giambattista Basile, che scrive Lu cunto de li cunti ovvero lo trattenemiento de Peccerille (1634-1636). Gli elementi dialettali delle parlate si rifletteranno per tutti il Seicento nella commedia dell'arte.

La produzione letteraria, in prosa e poesia, del Seicento è caratterizzata dallo stile barocco, contrassegnato dalla ricerca di stupore, dall'uso estremo di figure retoriche, da una figura femminile non più idealizzata ma spesso accentuatamente erotizzata. Si impone in questo contesto il melodramma che, nato proprio in Italia e mantenutosi a lungo sotto la sua egemonia, contribuì notevolmente alla diffusione della lingua in Europa. A questa produzione barocca si contrapponeva l'Arcadia, in nome di un classicismo petrarcheggiante, insieme ad altri autori che rifuggivano gli eccessi e le innovazioni.

Nella prima metà del Settecento, che vede la fine del dominio spagnolo nel 1714 in seguito alle guerre di successione, l'italiano di impronta toscana si consolidò nell'amministrazione e nella giurisprudenza di quasi tutto il Paese, sebbene fossero pochi quelli che lo parlavano e la differenza tra lo scritto e il parlato si facesse sempre più accentuata. Inoltre si stava formando una lingua ibrida, dovuta al tentativo dei parlanti in dialetto locale di adeguare il proprio idioma al modello letterario scritto e fissato nelle grammatiche. Da questo processo, la lingua si arricchisce di termini tipici di ciascun dialetto. Le polemiche sulla questione della lingua, intanto, erano improntate sempre più all'estetica.

Dinanzi ai mutamenti storici, sociali e, soprattutto, scientifici, il toscano basato sui modelli puristi trecenteschi si rivela sempre più inadeguato, e la lingua si arricchisce di neologismi, dando vita ad un linguaggio tecnico e scientifico in italiano. Molti neologismi derivano dal greco (barometro), mentre altri si formano da termini del linguaggio parlato con l'aggiunta di suffissi e prefissi (condensatore).

La diffusione della stampa periodica, che caratterizzò il Settecento, contribuì ad influenzare la nostra lingua con l'uso di periodi meno complessi, più vicini al linguaggio parlato. La più celebre rivista che diffuse il pensiero illuminista fu il Caffè.

Fondamentale fu la riforma dell'insegnamento, che passò dalla Chiesa allo Stato e che mirava a far apprendere l'italiano piuttosto che il latino.

Intanto la questione della lingua proseguiva e le polemiche antipuriste, in particolar modo quelle mosse dal Caffè, portarono alla soppressione dell'Accademia della Crusca.

Nella grande varietà di posizioni si crea una differenza sempre più marcata tra la prosa e la poesia, che tende ad improntarsi sempre più ad uno stile arcaico e classico, proprio per differenziarsi dal resto della letteratura. Così Parini, Alfieri, Vico scrissero la propria poesia su costrutti classici, pur essendo di stampo decisamente illuminista.

I caratteri dialettali vennero pian piano esclusi anche dal teatro, in particolar modo con Carlo Goldoni, che inizialmente scrisse in dialetto veneziano e lombardo, in italiano e in francese, ma poi passò dal plurilinguismo tipico della commedia dell'arte a un monolinguismo in toscano, spesso riscrivendo le commedie precedenti.

Nel primo Ottocento si interruppe quel processo di unificazione linguistica che si era raggiunto nel secolo precedente, a causa del fortissimo influsso del francese, dovuto in gran parte al dominio napoleonico. Nel frattempo, però, prendeva piede un senso patriottico che faceva leva sulla lingua come collante. Permaneva, comunque, il dibattito tra le diverse posizioni, tra le quali si rivelò risolutiva quella di Alessandro Manzoni.

Ritenendo che la lingua italiana stesse a Firenze, egli trascorse un soffitto fiorentino caratterizzato dal motto dello "sciacquare i panni in Arno", cioè per eliminare le influenze lombarde dalla lingua dei suoi Promessi Sposi. 

L'Italiano del primo Ottocento vede un grande pullulare di dizionari e grammatiche. A rompere la tradizione con l'impostazione della Crusca fu forse, per la prima volta, Niccolò Tommaseo con il Dizionario dei sinonimi (1830).

Riguardo al lessico, il rinnovamento avviene soprattutto in ambito extra letterario. Si delinea in questo momento la differenza in Parlamento tra centro, destra e sinistra. 

Mentre nello scritto si era ormai imposto l'italiano, nella lingua parlata si continuano ad utilizzare i dialetti. I classicisti vi vedevano una barriera per la lingua, ma alcuni poeti, come Carlo Porta o Gioacchino Belli, li scelsero per le proprie opere.

Essendo venuto meno, in questo primo Ottocento, il culto illuminista, la reazione antilluministica e antirazionalistica portava alla nascita del Romanticismo (1816). I letterati si divisero tra romantici e classicisti, due correnti opposte che si sarebbero scontrate nel corso del secolo. I romantici si schierarono a favore di una ligua aperta alla modernità, mentre i classicisti privilegiavano l'eleganza della lingua della tradizione.

Va precisato che il Romanticismo non disdegnava i classici ma i classicisti e i loro schemi anacronistici: a testimonianza di ciò, Leopardi non rinnegò il modello dei classici ma, dopo un'iniziale vicinanza al purismo, scelse un italiano che fondeva antico e moderno.

Con la proclamazione del Regno d'Italia, nel 1861, fu unificato il territorio italiano ma non la lingua. A questo scopo, urgeva un intervento sulla scuola, che avrebbe dovuto impartire a tutti una stessa formazione. Con la legge Coppino del 1877 si introdusse l'obbligo della frequenza scolastica per i bambini e le bambine di sei anni e successivamente, nel 1868, il ministro Broglio istituì una commissione presieduta da Manzoni, che doveva indicare i provedimenti da adottare per risolvere definitivamente la questione della lingua. Partendo dagli assunti manzoniani, si diede il via alla compilazione del Novo vocabolario della lingua italiana secondo l'uso di Firenze, molto aderente alla lingua viva parlata a Firenze, che non ebbe molto successo ma ebbe il ruolo storico di aprire la strada ai succesivi dizionari di taglio moderno, sempre più diversi da quello della Crusca.

Reputando la lingua eletta da Manzoni troppo limitata e artificiale, un gruppo di antimanzoniani si appellava in nome di una lingua più ampia e collettiva, che coinvolgesse, in alcuni casi, anche i dialetti.

Tra gli antimanzoniani c'erano anche Carducci, legato al classicismo aristocratico e poco favorevole alla letteratura e all'istruzione per tutti, e Verga, fautore di un linguaggio che si adattasse al parlato dei protagonisti. 

Prevalse ugualmente la linea manzoniana, portata avanti da autori come Edmondo de Amicis o Carlo Collodi.

Sul finire del secolo, le opere di Pascoli, D'Annunzio, Svevo, Pirandello, Gozzano e Palazzeschi diedero all'italiano la forma stabile che usiamo ancora oggi. Ma il problema dell'incompiuta unità linguistica permaneva nella lingua parlata ancora agli inizi del Novecento e allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, quando un esercito di soldati meridionali e un comando di ufficiali piemontesi riscontrarono seri problemi di comprensione.

Con l'avvento del Fascismo, nel 1922, l'obbligo di parlare e scrivere in italiano a scuola portò alla creazione di una cultura comune. A questo si accompagnò il protezionismo linguistico, con la lotta contro tutti i forestieriemi in nome di una totale autonomia dello Stato italiano dal nemico, che però si rivelò fallimentare.

Fuori dal Fascismo, Benedetto Croce e Antonio Gramsci guardano alla lingua nella sua evoluzione storica, considerandola il frutto di un popolo che parla e non di una grammatica imposta. E in efetti l'italiano del secondo Novecento si arricchisce di neologismi e di forestierismi, e si differenziano i registri linguistici.

Con l'avvento del sonoro, nel 1926, e poi con la nascita di Cinecittà e dell'Istituto Luce, legato all'avvento della radio nel 1924, il controllo del fascismo si esercita su tutti i settori della comunicazione.

Nel 1938 il programma radiofonico La lingua d'Italia mirava a divulgare le scelte fonetiche del regime, che creava, così, una dizione comune, impostata sul modello romano (Roma caput mundi). Possiamo di certo affermare che il grande merito del fascismo nella storia della lingua è stato quello di aver creato una regolamentazione nel parlato e nella dizione. 

Nel secondo dopoguerra, poi, l'avvento della televisione ultimò il processo di unificazione: tra il 1960 e il 1968 fu persino trasmesso un programma con cui il maestro Alberto Manzi forniva lezioni di italiano arrivando in tutte le case, mirando quindi all'alfabetizzazione di massa.

Tra il 1951 e il 1961, in seguito alle grandi migrazioni dal sud verso il nord la città di Torino vide crescere la sua popolazione di oltre 300.000 abitanti, e un fenomeno simile coinvolse molte altre città del nord. In questo contesto, Pasolini riapre (1964) una nuova questione della lingua, in cui i dialetti dovevano essere difesi in nome della creatività. Il linguaggio comune era ormai l'italiano omologato delle fabbriche, in cui i termini diventaavano sempre più tecnici, che ben poco avevano di estetico o letterario. Questa funzione del linguaggio poteva essere conservata solo dai dialetti. 

Gadda, in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957), rompe con il monolinguismo per dare spazio al linguaggio delle tradizioni, che però fondeva con le innovazioni. Siamo davanti ad un italiano ormai ibridato, che dà ormai vita a diversi registri: italiano colto, standard, popolare, regionale.

Dalla necessità di essere tecnici e precisi nascono i linguaggi di settore. All'interno di una lingua, infatti, esistono la polisemia, l'uso figurato e gli slitamenti semantici: l'utilizzo di un linguaggio specifico fa sì che si intenda il significato specifico di un termine inserendolo nel suo settore. Tra i linguaggi settoriali troviamo quello giornalistico, quello burocratico (Calvino, nel 1980, lo definirà un'antilingua), il linguaggio politico (Aldo Moro definirà convergenze parallele i punti di contatto tra il partito comunista e la democrazia cristiana degli anni Settanta), il linguaggio della pubblicità.

Nella composizione dell'itliano collettivo del Novecento hanno il loro ruolo anche i gerghi parlati, che nascono in gruppi sociali ristretti per poi trovare spazio anche al di fuori di essi. Tra questi, il gergo della mala, della mafia, dei drogati. Lo slang o gergo dei giovani occupa un posto a sé, in quanto più mutevole nel tempo e nello spazio, e spesso influenzato dai contesti sociali o musicali.

Una rilessione a parte merita la questione dei prestiti dall'inglese. La presenza di forestierismi nella lingua italiana non è un fenomeno nuovo, ma bisogna quantificare il fenomeno allo stato attuale. Due schieramenti si sono contrapposti sull'argomento: gli apocalittici, pessimisti e preoccupati, con Arrigo Castellani, e gli integrati, ottimisti e liberisti, con Tullio del Mauro. Sarà Arrigo Castellani a parlare del fenomeno come morbus anglicus.

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